Le tre ore di strada da Uyuni a Potosí si rivelano decisamente all’altezza degli standard di bellezza cui gli ultimi giorni boliviani ci hanno abituato. A ogni tornante (e sono tantissimi…) una meraviglia diversa: canyon, vette, sole, pioggia, deserto, lago, lama, asini, villaggi, arcobaleni, cascate, rocce multicolori, grandi massi multiformi, fiori steppa fiumi valli temibili pendenze e strapiombi minacciosi… e noi alterniamo stati d’animo sublimi a sensazioni ossimoro-viventi osservando con la coda degli occhi sbarrati ai finestrini Santos, che attacca le curve dopandosi a manciate di foglie di coca con il volante tremolante. Si vede che comincia ad essere un po’ stanco e S., seduta accanto a lui, suda freddo mentre G. cerca di testare quanto la situazione sia sotto controllo per il nostro conducente, scoprendo che per il nostro autista profesional è sconosciuta qualunque nozione di convergenza o equilibratura delle ruote… mah!
Meglio non pensarci e restare tranquilli, e infatti a Potosí ci arriviamo in qualche modo e calorosamente scambiamo l’adios con Santos dalle parti della terminal vecchia. Sarà che siamo un po’ assuefatti alle potenti dosi di natura e purezza ma… qui ci pare impossibile persino respirare: caos, rumore e fumi del traffico appestano l’aria, a più di 4000 m d’altezza non riusciamo a fare nemmeno 20 metri in salita con gli zaini ché dobbiamo fermarci sbuffando, e la voglia che ci balza in mente è solo una: fuggire da qui!
Per fortuna la situazione nel centro storico, dove ci facciamo portare da un tassista a cui piacciono un po’ troppo i Maná ad alto volume, è un po’ migliore. Recuperiamo una quadrupla con bagno con Quique e Georgina al “Koala Den” e dopo una meritata doccia che ripristina in noi la modalità “civiltà” (si fa per dire) ci fiondiamo fuori: cerchiamo del cibo ma ci imbattiamo invece in una inquietante processione di incappucciati che portano in spalla delle enormi statue – e ci ricordiamo che già, si avvicina la Pasqua. Il ristorantino vegetariano Manzana Mágica promette un buon menù sano e vario ma… “solo les podemos ofrecer hamburguesas…”, evabe’ l’importante è non soffrire la fame; e poi a nanna mentre il freddo della città più alta del mondo si prende la notte.
Georgina si sveglia presto e prepara il mate, invece noi ce la mettiamo tutta a recuperare i sonni persi dei giorni precedenti e raggiungiamo gli altri con calma per la colazione. I nostri amici partiranno oggi, così mentre loro tornano alla terminal per comprare i biglietti noi facciamo un bel giretto alla scoperta delle colorate stradine coloniali tra edifici armonici, architravi e pilastri di pietra scolpiti e graziosissimi balconi in legno intarsiati. Le tracce così evidenti dell’antica grande ricchezza della città, che a lungo fu il principale centro di estrazione di minerali nel Nuovo Mondo, fanno a botte con la scarsissima manutenzione dell’architettura, gli intonaci scrostati e i legni deformati e rovinati che ne denunciano invece l’attuale decadenza.
Qui nel centro storico, se non fosse per il traffico parrebbe proprio di essere in un paesino di montagna, popolato da gente indigena sui cui volti sono impressi i secoli di sfruttamento che hanno ridotto il Cerro Rico, che fa capolino dall’arco di pietra, così rivoltato e grattato e scavato dall’attività mineraria. Uno dei pezzi forti del turismo a Potosí è la visita alle minas: decine di agenzie, per una spesa a portata di gringo, organizzano la discesa nelle miniere in attività del cerro per osservare dal vero e incontrare gli operai che sono ancora oggi lì sotto in massa, in condizioni a dir di tutti medievali, per scavare e tirar su roccia e minerali – ma noi decidiamo che non fa per noi questo zoo post-moderno in cui per una mezz’oretta si condivide l’esperienza (e si portano via le fotografie) dei poveri cristi che sono lì a sudare e rischiare la vita (parecchi ci lasciano le penne) senza alcuna tutela né assicurazione, in cambio dei contentini in forma di candelotti di dinamite o sigarette o foglie di coca regalati dai turisti.
Molto meglio assaporare un po’ di vita locale nell’animata plaza, e poi unirsi a Quique e Georgina per visitare la Casa de la Moneda. E’ un enorme bell’edificio coloniale in pietra e mattoni, il più grande rimasto in Sudamerica di quell’epoca, servito da zecca sia sotto il regno spagnolo che per la repubblica, dove ancora resistono originali le enormi macchine per la laminatura dei lingotti di rame o argento a trazione animale in legno e ferro, e le successive trascinate da un motore a vapore, e le successive elettriche. Tra le collezioni di quadri, monete, minerali e reperti archeologici (tra cui dei cadaveri mummificati di bimbi) la nostra guida baffuta e coi denti d’oro ci racconta di quando la zecca impiegasse come operai gli indigeni, salariati, ma che ogni tanto riuscivano a portarsi via pezzettini di argento inghiottendoli; invece pare che i tentativi di sfruttamento di schiavi africani come operai in miniera non ebbero successo, per via della loro statura e della loro difficoltà di adattamento all’altitudine ed alla mancanza di ossigeno (nei territori andini difatti, a differenza delle altre parti del Sudamerica, i neri sono una esigua minoranza). Nemmeno lui però pare conoscere il vero significato del mascherone col sorriso beffardo appeso sull’arco centrale nel patio principale dell’edificio: ormai ci siamo abituati all’idea che in Bolivia la verità è una questione di interpretazione, e nemmeno alle spiegazioni ufficiali (tipo quel che si legge su un sito internet istituzionale) bisogna dare eccessivo credito.
L’unica è testare dal vivo le esperienze: e allora non c’è da tirarsi indietro quando si tratta di provare ad un chioschetto nel mercado, tra gli incensi colorati da offrire alla pachamama e i feti di lama essiccati appesi, quel bibitone verde brillante che dicono sia spremuta di alfa-alfa (erba medica) e faccia tanto bene (non solo ai bovini). Poi però torniamo ad atmosfere più familiari e rilassate per il mate serale sul divano in ostello: in breve arriva il momento dell’adios ai nostri amici argentini – hasta luego chicos, siempre tienen una casa en Italia! – e restiamo a fare charlas con i ragazzini svizzeri, in anno sabbatico dopo il liceo, e con Mario, ex dealer di borsa a Milano e a Lussemburgo che ha lasciato tutto per fare il cuoco a Brasilia.
Il mattino dopo è ora per noi di ripartire. Siamo affascinati dalle due biciclette super-attrezzate della coppia dell’Alabama che pianifica di metterci una settimana per arrivare fino a La Paz, ma noi cerchiamo un bus fino a Sucre e veniamo accalappiati alla terminal nueva su un vecchio mezzo dall’odore di capra o di lama senza capire nemmeno il nome della compagnia che ci trasporterà (alla faccia di tutte le raccomandazioni alla prudenza con cui le guide turistiche ci bombardano). A ogni fermata si accalcano gruppi di signore trecciute con cappellini bianchi decorati a fiorellini, con fagottini coloratissimi sulla schiena, pieni di bimbi e non solo; alcune durante la sosta scendono in gran fretta, si fermano accanto al bus, sollevando i lembi della gonna si accovacciano e… fanno pipì.
La periferia di Sucre ci accoglie con il consueto scenario di discariche e terra mossa, case ed edifici di mattoni non intonacati, e l’inquinamento irrespirabile non ci risparmierà nemmeno questa volta. Arriviamo in centro chiacchierando con un tassista sui mercatini della città che non vogliamo assolutamente perderci; per telefono troviamo una sistemazione all’hostal Bicentenario, che abbandoneremo presto per spostarci al più carino (e meno invaso da israeliani festaioli) San Francisco.
Sucre non è una destinazione estremamente turistica, ma ospita tantissimi stranieri, ad esempio un sacco di tedeschi ed olandesi, che ci vivono e ci aprono agenzie di viaggi ed escursioni, o bar e ristoranti. In queste cittadine coloniali il traffico è sempre una tara notevole, però in questi giorni di festività pasquali le strade strette e ripide del centro storico, con gli edifici bassi e bianchi e le chiesette e le plazas alberate, sono addirittura piacevoli e tranquille – sempre se non si càpita in mezzo alla processione del Venerdì Santo dove la folla sfila con tanto di cartelli e striscioni con messaggi di pace e amore per Gesù. Al mercado però ci ricordiamo di essere nel cuore della Bolivia osservando i bimbi che giocano a terra tra le mercanzie dei contadini, i mucchi di frutta colorata (tanta!) e i tagli secondari di carne appesi ai banchi di cemento piastrellati. La povertà è brutta dappertutto, già, e qui in mezzo non riusciamo a trovare rasserenante nessuno dei semplici comedores che servono chorrillanas, lomitos e pailitas, così ripieghiamo sui tavolini del Florín, pub-ristorante dove sembra di essere in un altro continente ma che ci traghetta con cenette messicane e caipiriñas in hora feliz direttamente a nanna, oppure al Jolie Bistrot per assaporare buoni piatti e qualche ora di fresco dopo la lunga passeggiata per il Parque Bolívar (dove c’è una strana specie di torre Eiffel in miniatura) e la vecchia stazione del treno.
La mattina della domenica di Pasqua ci incamminiamo di buon’ora decisi a raggiungere Tarabuco, oggi lì è giorno di mercato ed è proprio il caso di farcisi un giretto. Nella piazzetta di fronte alla chiesa di S. Francesco (quella con la statua di Cristo seduto con le gambe accavallate) c’è una folla di persone che bevono, fumano, masticano coca, confezionano bimbi in fasce tipo mummia per caricarseli in spalla; noi osserviamo tutto curiosi, non capiamo, chiediamo informazioni e tiriamo avanti verso l’incrocio da dove pare partano i minibus. Arrivare a Tarabuco a tarda mattinata pare ormai un’impresa complicatissima, ma quando stiamo quasi per rinunciare riusciamo ad organizzare un taxi in condivisione con due ragazzi francesi, e in un’ora di curve attraverso l’altopiano siamo nel mercado al culmine delle attività.
In mezzo al tripudio di colori, noi ci crogioliamo nei volti e negli abiti della gente, più che nella merce. Ci passano intorno signore con trecce e gonnelloni larghi che trasportano nei teli in spalla ogni genere di mercanzia (oltre ai bimbi), e uomini con la pelle scura coperti di ampi poncho a righe in calzature ricavate da vecchi pneumatici. E’ un viavai di molti artigiani e pochi turisti, sembra ancora un luogo dove i locali dai dintorni vengono apposta per vendere le proprie produzioni artigianali e agricole.
Per placare la fame ci sediamo nel piccolo cortile fiorito del Tikara Wasi e sarà il culmine dell’esperienza straordinaria di questa giornata: non sappiamo dire se per il trimate (infuso di camomilla, mate e coca), per il fantastico pappagallo di nome Cotì che ci saluta dall’albero centrale, per la buonissima sopa de maní, o per gli occhioni profondi di Sandra (la figlioletta dei padroni) che ci guarda curiosa.
Per tornare a Sucre troviamo (anzi, ci trova) un micro (furgoncino attrezzato) in partenza coi sedili piccoli piccoli che per eufemismo definiremo quantomeno vecchiotti. Il mezzo secondo noi può trasportare al massimo una dozzina di persone… ma non esplode nemmeno quando ce ne entrano venti (più l’autista). Poco meno di due ore di polvere, e odore di foglie di coca macerate, e di stalla, stipati così a esplorare da vicino con lo sguardo e gli scambi di sorrisi i bellissimi volti scavati dal sole dei nostri copasseggeri, e rieccoci scaricati nei pressi del Reloj (il campanile con l’orologio) a Sucre.
Siamo in tempo per il film “The Devil’s Miner” che viene proiettato al pub Amsterdam: è un racconto-documentario intorno ai lavoratori delle miniere di Potosí. Vale più di una discesa turistica nelle miniere per conoscere un po’ della realtà povera e drammatica della classe dei minatori boliviana – la storia verte intorno a Basilio, un ragazzino di 14 anni che lavora in miniera per aiutare la famiglia dopo la morte del padre, tra timorose offerte a El Tío (il diavolo signore del sottosuolo cui tutti i minatori si raccomandano) e la quotidianità così umile e faticosa. Inutile dire quanto ci commuoviamo e capiamo bene, anche senza poterne condividere in fondo la condizione, quello che intenda quando dichiara in una scena: “il mio sogno è sempre stato… visitare i luoghi che non conosco”.
(Tutte le foto dove al solito: qui)